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Assunta       
Eravamo nello stesso reparto Assunta ed io, nel febbraio dell'85.
Lei sospettava già la sua malattia, aveva girato vari ospedali del "Continente".  Ero attratta dallo spirito indomito di quella donna allegra e ciarliera.  Quando passavano i medici fra gli otto letti stipati in quella stanzona, da lei non si fermavano mai, come se la sua sorte fosse già segnata e lei lo aveva capito da tempo.  A volte la portavano via senza dirle niente, quando tornava, piangendo mi diceva: mi fanno l'elettromiografia alla lingua, è dolorosa, a che serve? E non è la prima! Ormai sanno tutto!  Venti giorni ho passato accanto a lei.  Raccontava volentieri le alterne vicende della sua vita felice e amara. Innamorata, sposò il primo marito, ma la morte lo colse dopo soli diciannove mesi lasciandola straziata e senza figli.
Poco dopo una sorella, dovendo sottoporsi ad alcune analisi, si fece promettere che, se le fosse accaduto qualcosa di grave, avrebbe badato ai suoi quattro figli. La sorella non uscì viva dall'ospedale.  Assunta, malvista dal cognato, che temeva di perdere i suoi figli, mantenne la promessa e si occupò dei nipoti, con l'amore di una madre.  Il cognato, rassicurato, s'innamorò e si sposarono. Anche questa felicità durò poco, dopo più di un anno e mezzo Assunta rimase vedova con quattro figli. Li fece studiare col suo lavoro, confezionava entusiasta abiti da sposa, aveva lavoranti che l'aiutavano, vivevano agiatamente.  Alla comparsa dei primi sintomi, il figlio più giovane aveva diciotto anni, altri erano già sposati.  All'improvviso piombò la malattia: stava passeggiando nella sua città sarda in riva al mare, cadde senza motivo, poi altre cadute la insospettirono e fece accertamenti nella sua città.
C'era un precedente che la impauriva: la mamma era stata colpita da una malattia che l'aveva paralizzata tutta in breve tempo.
Cominciò il suo calvario in vari ospedali del nord, dove scoprirono la causa e formularono la diagnosi.  Intanto peggiorava a vista d'occhio, ad agosto la prima caduta, a febbraio stava a fatica sulla sedia a rotelle.  Io la scarrozzavo al bar, correndo per i corridoi, si divertiva un mondo, forse dimenticava il suo assillo.  Rimaneva in quest'ospedale come non esistesse.
Aveva un letto indecente, sfondato come una barca; ottenni che le mettessero un'asse sotto il materasso.  Da sola non si muoveva, gli unici lamenti li sentivo di notte quando chiedeva di essere girata, alcune infermiere si comportavano come i medici, gli infermieri erano più premurosi e le davano conforto.  Noi del reparto, durante il giorno l'aiutavamo, usava con notevole fatica le mani, ma mangiava da sola.  Qualche volta, mio marito le portava il gelato che lei gradiva molto.  
Io fui dimessa prima, si dispiacque molto, attirò mio marito e, sussurrando disse: Antonio (stranamente, il nome di suo marito) io muoio.  Pochi giorni dopo seppi che era al policlinico di Milano, andammo a trovarla, non mangiava più da sola, la stava imboccando una cugina, lei ormai era scoraggiata, partiva per la Sardegna in settimana con un fratello.  Rimanemmo in contatto per parte dell'estate, poi alle mie telefonate non era più la sua voce che rispondeva, una ragazza mi spiegò che non parlava più.
A marzo "sentivo" che qualcosa era successo, ma non ebbi più il coraggio di telefonare.
Aveva la sclerosi laterale amiotrofica, io non conoscevo allora questa malattia.
                                                                                               Emilia  
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